Racconto di Colas e Guido Siragusa
Racconto scritto a quattro mani, contenuto nell’ebook [isnc]edizioni L’amore sbagliato – Racconti tra sedici anni e dintorni, di Colas e Guido Siragusa, settembre 2014
Ho sedici anni e vivo in un piccolo paese sul mare che tutti detestano. Io lo amo però, questo mio piccolo paese. Amo i suoi scogli da dove mi tuffo ogni estate, amo la trasparenza del suo mare, il buio delle notti illuminate appena dalle stelle in cielo. Lo amo talmente tanto da soffocare sul nascere ogni più piccola idea di fuga.
Michele invece, di un anno più grande di me, pensa che non si può che desiderare di andar via da questo schifo di posto, se si vuole cominciare a vivere.
«Scrollarsi di dosso la sensazione, non di precipitare nel vuoto ma di rimanerci sospesi in questo paese di merda dove nessuno si fa i cazzi suoi: galleggiare nel vuoto. Il vuoto che ti cresce dentro,nello stomaco, nelle arterie, nel cervello, che ti esce fuori dagli occhi e invade tutto quello che sta attorno a te, in modo da contenerti tutto quanto, immobile. Schifosamente immobile sotto questo sole, nella piazzetta del bar, seduto a terra, la schiena appoggiata al muretto della scalinata coagulando qui gli altri sfigati, smerciando una giovinezza che invecchia senza alternative. E galleggi, galleggi, galleggi!»
Il sole è alto quell’inizio pomeriggio di maggio inoltrato e una ondata di luce che fa risplendere il pulviscolo d’oro della spiaggia rende tutto più caldo. Michele ed io siamo seduti uno accanto all’altro, coi piedi nudi allungati sul bagnasciuga ad aspettare le onde. Lui si volta verso di me ad osservare ogni tanto che faccia io faccio ascoltandolo. Sì, perché lui mi sta parlando da un sacco di tempo senza interruzione e le sue parole mi stancano dopo un po’, forse proprio perché fanno riemergere i miei sensi di colpa. Non sono stupido, mi sono accorto dell’attaccamento che ultimamente egli ha sviluppato nei miei confronti e, nonostante io cerchi di ignorare la cosa, so bene che è un sentimento profondo. Ma so altrettanto bene che io non posso ricambiarlo, o non voglio.
«Insomma, capisci?, l’orizzonte della nostra vita è fatto di donne…» mi pare di sentirgli dire a un tratto. «Donne che odiano gli uomini, però. Donne infelici e sole anche se sposate. Donne del Sud come quelle di una volta, che si tengono compagnia tra loro… Ad esempio mia madre, in questo assecondata da mia nonna, ha sempre detto male di mio padre, definendolo spesso un bastardo. Mio padre un bel giorno s’è stufato e non è più tornato a casa ed è stato allontanato, come un delinquente pericoloso, anche dalla mia vita…»
Sulla parola “vita” Michele si ferma di colpo, come avesse ricevuto un cazzotto nello stomaco. Poi si guarda in giro infilandosi una sigaretta in bocca.
«Hai da accendere?» domanda fissandomi, come se cercasse qualcosa nei miei occhi. Ma non ci trova neppure ‘sta volta la risposta ai suoi problemi. Niente di tutto questo. Frugo nella tasca destra dei jeans e gli allungo l’accendino. Intanto sento crescermi dentro una strana smania. Una voglia di alzarmi, di correre. E sto per farlo…
«No, non puoi andartene adesso…»fa lui, afferrandomi per un braccio. «Perché non facciamo il bagno?»
Io scuoto la testa.
Lui mi restituisce l’accendino sfiorandomi la mano.
«Perché no?»
«Perché non mi va! L’acqua è fredda.»
«Fredda?» Sorride Michele, un sorriso tirato, stanco. Non smette di fissarmi.
Mi alzo e faccio un bel respiro sperando di schiarirmi le idee. Guardo l’orologio.
«Le cinque e mezza. È tardi!»
«Tardi per cosa?» chiede alzando appena la testa.
«Per tutto! Per me, per te, per noi…» rispondo.
Anche Michele si è alzato in piedi e mi si avvicina. «Sai qual è il problema, Marco?»dice con quel tono di chi si confida e che a me non piace.
Io allargo le braccia. «Allora, qual è il problema?» «Ecco, io…» rimane qualche istante in silenzio. «Perché non riesci a capire? Eppure è cosi chiaro. Sono due ore che ti parlo…» mormora scuotendo la testa.
«Appunto, è ora che gli dai un taglio!»
Intanto ci siamo avviati lungo il bagnasciuga, vicino all’acqua. I nostri piedi nudi sprofondano nella sabbia morbida. Non parliamo. Il rumorio delle onde, ora, sembra più forte. A un tratto ci giriamo insieme a guardare il mare.
«Una volta sentivo di più gli odori. Non è strano?» dice sottovoce.
«Fumi troppo”» gli rispondo gelidamente.
«I cani, lo sai, usano più di metà del loro cervello solo per annusare… Una volta sentivo persino l’odore dell’aria, della pioggia. Adesso non sento più gli odori. Non sento più nulla!».
Poi si gira a guardarmi. Non dirlo, ti prego!
«È tutto così complicato…»
Invece lo dice.
«Una volta tutto era più semplice tra noi. Ti ricordi quando andavamo a nuotare, di mattina presto o di sera, quando il sole tramontava. Dopo ci stendevamo a lungo sulla sabbia, pigramente l’uno accanto all’altro… Quello era il mio momento preferito, mi ripagava per l’accettare di rimanere ancora in questo posto di merda, e pensavo che ti avrei messo volentieri una mano sul petto per sentire il tuo cuore».
Cazzo, l’ha detto!
Ci fermiamo.
Si volta dalla mia parte e mi mette il braccio intorno al collo.
Glielo permetto: sento il calore della sua mano.
«Ho sempre pensato…» dice, «che con te sarebbe stato diverso. La complicità profonda che ci unisce non somiglia a niente di ciò che conosco, alla vita degli altri. E sdraiato accanto a te su questa spiaggia potrei avere il coraggio di fare qualcosa di cui altrove mi vergognerei persino di averlo solo pensato…»
Mi prende il viso tra le mani e mi guarda negli occhi. «Qui siamo liberi di ragionare su tutto ciò che vi è di oscuro e di irrisolto nella nostra esistenza: i tentacoli di questo schifo di posto che mi opprime sin dall’infanzia qui non ci possono raggiungere…»
Alla fine fa per baciarmi, mentre le sue mani scendono a sollevarmi la camicia.
Per un istante non riesco a reagire. Per un istante. Poi…
«CAZZO FAI, MICHELE!» urlo. E lo respingo con entrambe le mani afferrandolo per la vita. Inciampiamo e cadiamo insieme.
Sulla sabbia gli salto addosso.
Lui mi agguanta per il collo e mi tira contro di lui. Sembra non voglia lasciarmi.
Scalcio, mi agito come un forsennato.
Cerco di liberarmi, ma Michele è più forte e la sua presa è ferma, sicura, e mi tiene bloccato con la faccia sprofondata nella sabbia.
Mi manca l’aria, boccheggio, cerco disperatamente di respirare.
Intanto Michele mi urla di smetterla, di non muovermi, e in un attimo mi è sopra.
Sento il suo sesso duro premere contro il mio corpo. Resto sospeso per un attimo tra paura e rabbia.
Poi la rabbia riesce a spazzare di dosso tutti gli altri sentimenti e mi fa urlare e riesco a divincolarmi.
Gli mollo un calcio nelle palle con tutta la forza che ho ancora nelle gambe. E corro via, lasciandolo lì accovacciato sulla sabbia a rantolare come un cane ferito.
Il mattino seguente Michele non c’è in classe.
Dieci giorni dopo, quando arrivo nel parcheggio della scuola, un gruppetto di nostri compagni parlottano come quando è successo qualcosa.
La mia ragazza mi fa segno con la testa come già sapesse.
Si avvicina con movimenti indeboliti, e mi abbraccia. «Michele… che disgrazia…»
Rimango qualche istante immobile, senza espressione.
Poi corro via e raggiungo la spiaggia, e resto a lungo seduto sulla sabbia a guardare il mare. Mi sento solo, isolato, un senso di vuoto allo stomaco. All’improvviso avverto il desiderio di abbracciarmi, di stringermi, come farei con un cucciolo indifeso.
In quel gesto solitario non c’è passione, non c’è amore, ma calore… Un senso di protezione con cui si vuole circondare chi appare troppo debole per sopravvivere da solo. Questa è la sensazione che provo in quel momento.
Poi quel che faccio è di iniziare a togliermi i vestiti fino a rimanere completamente nudo. Entro in acqua e inizio a nuotare.Una bracciata dopo l’altra, prima piano poi sempre più forte. E più mi allontano dalla riva più sento crescermi dentro la sensazione di una assoluta mancanza di senso. Triste e liberatoria insieme.
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