Racconto di Colas

[Racconto Vincitore al Premio Letterario Alois Braga, edizione 2005 – © isogninelcassetto.it]

Come al solito mi sveglio alle due del pomeriggio. Ho la testa a fuoco, l’alito da elefante, gli occhi incollati. È un’abitudine che va avanti ormai da mesi, chissenefrega. Non voglio cambiare. Sì, proprio così. Se solo potessi permettermi di stare immobile qui per sempre, penso.

Chissenefrega se nel frattempo il mondo sta andando a pezzi: taxi, negozi, auto, bar, famiglie con prole al seguito, filobus, sacchi di immondizia, pizzerie da asporto, gente seduta sotto i ventilatori, code in autostrada, sex shop, liti anti o pro coitali, full-time, prêt-à-porter, carte American Express Visa Mastercard, metropolitane deserte, fidanzati mano nella mano, registratori di cassa, scale mobili, gigantografie pubblicitarie di Chanel, barboni accovacciati sull’asfalto, poliziotti, drogati, spacciatori, sangue, sperma, saliva, merda, piscio…

Mi alzo per andare al bagno. Adagio. Molto adagio.

Ultimamente ho problemi a urinare, faccio fatica esento bruciore.

Lele, che deve sempre spaccare i coglioni e gufare, dice che avrò un calcolo; che sono cazzi amari, che fa male. Lui ne sa qualcosa, insiste, suo padre ha spesso coliche renali. Ma poi si pisciano e tutto passa, sentenzia. Ehi, uno con la tua faccia di cazzo non capisce niente, lo aggredisco io. Sei un medico? Segaiolo di merda!

Entro in bagno. Va tutto benissimo, devo solo stare tranquillo.

Mi guardo allo specchio: sulla mia faccia sembra essere passato un camion. Ho due occhiaie che mi scendono in bocca, un colore cadaverico. E intanto dentro di me ripeto: voglio non avere più pensieri, non avere più desideri. Voglio provare a non dover più essere nessuno.

Mi abbasso le mutande e mi siedo sulla tavoletta del water.

Tento di pisciare e intanto mi guardo attorno. Insomma sembra esistere un complotto in questa vita contro chi come me vorrebbe perdersi del tutto, evitando di capire dove si trova, di intuire dove sta andando.

Dopo un po’ mi metto a contare le piastrelle del pavimento di colore kiwi con la buccia. Uno, due, tre, quattro… dodici piastrelle. Per quante file? …cinque, sei, sette file e un pezzo. Se una piastrella misura venti centimetri per venti, mi domando: quanto cazzo è grande questo bagno? Faccio due conti e poi concludo: circa quattro metri quadrati? E quanto cazzo deve ancora sudare il mio vecchio per finire di pagare il mutuo prima casa ventennale al tasso del tre virgola cinque per cento indicizzato all’euribor di questo appartamento due camere soggiorno cucina abitabile doppi servizi e con il bagno di circa quattro metri quadrati? Con vasca, lavandino, water e bidet, ma anche controsoffitto perlinato e faretti incassati. Qualcuno mi tolga questo tarlo dalla testa. Bingo!

Nel frattempo la fottutissima urina non ne vuole ancora sapere di uscire.

Mi concentro, penso all’estate al mare, al sole, io steso sulla spiaggia, la brezza che mi arriva addosso sulla nuca e sulla schiena, e l’Adriatico in trasparenza all’orizzonte. Lo vedo attraverso quel luccichio che mi piace fissare ad occhi stretti, imponendomi di non infilarmi gli occhiali, e osservo quasi rapito come se cercassi di catturare ogni più piccolo particolare di quel vedere, per tenerlo dentro di me, come se non potessi più rivedere il sole un’altra volta, fino a quando il tutto si trasforma in un immenso disco di fuoco rosso… E con lafantasia volo via, lontano, ancora più lontano, sempre più lontano. Lasciatemi andare!

Invece eccomi qui di nuovo con queste giornate senza scopo, senza obiettivi, senza orari, talmente indefinite da non sapere che farne, cosa aspettarmi; nelle quali neppure l’evidenza delle cose a volte è l’unica certezza.

All’improvviso ricordo di avere letto da qualche parte che, tra le abitudini di Fidel Castro bambino, c’erano quelle di tentare di volare, fissare il sole a occhi spalancati, camminare facendo tre passi avanti e uno indietro… Quanto mi assomiglia, cazzo!, questo modo difare.

Ricordo anche un’altra cosa che non c’entra nulla con la prima, ma è sempre colpa del fatto di voler camminare facendo tre passi avanti e uno indietro. Mi viene in mente Zhang Ruoxu, sconosciuto poeta cinese del primo periodo della dinastia Tang, o qualcosa di simile, sempre ispirato da uno stato d’animo affrancato dagli affanni, dai paesaggi naturali ch’egli descrive associandoli a momenti dello spirito, così intensi da unire cielo e terra in un abbraccio universale.

Vorrei ridere di questa melassa vomitevole – del resto chissenefrega, i poeti non sono gente onesta – invece non riesco perché inizio a sudare e tremare: sia per i brividi di questa cazzo di cosa che non riesco a pisciare, Lele porti iella, vaffanculo!, sia per la paura della paura di una esistenza che ho sempre rifiutato e non riesco abuttar fuori.

Inspiro, espiro. Voglio urlare!

Urlare tutta la rabbia che ho dentro ma soprattutto il vuoto, l’impotenza di un destino appena nato e già decretato a soccombere. Voglio che giunga il gran giorno della coscienza e del coraggio. Voglio che giunga il momento in cui posso finalmente elevarmi sui pregiudizi della mediocrità.

Aiuto! Adesso sto scomparendo!

Avverto i segnali premonitori di un imminente disastro. La paura mi schizza in gola. Mi sento soffocare. Adesso ho veramente paura!

Paura per gli spasmi che dalla schiena si irradiano all’inguine e mi fasciano stritolandomi il basso ventre.

Paura di essere risucchiato e di attraversare un turbine sconosciuto verso la decomposizione.

Insomma paura di morire davvero, a diciotto anni appena compiuti…

MAMMA, AIUTOOOOO!

Cado mezzo nudo e di traverso sul freddo letto di piastrelle del pavimento di colore kiwi con la buccia, in questo bagno di circa quattro metri quadrati, come colpito da un colpo di arma da fuoco.

Dopodiché non ho più percezione fisica. Non ricordo più nulla.

Proprietà letteraria riservata © 2005 [isnc]edizioni

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