Racconti contenuti in apologos, la collana di narrativa, n.1, [isnc]edizioni, 2006
Colas, Indio e Guido Siragusa hanno scritto ognuno un racconto in memoria di Alois Braga dopo la sua scomparsa improvvisa, che ci riconduce al dramma dell’amico perduto. Nel recensire i tre testi subito dopo la loro pubblicazione su isogninelcassetto.it, Anna Carbich scriveva: «Interessanti i generi scelti, la contemporaneità, l’introspezione, sono preferite nel “Ragazzo” di Guido Siragusa, mentre Colas sceglie la favola antica, il ritorno al mito, e Indio un fantasioso racconto moderno e surreale. Tre amici, tre stili, tre bellissimi racconti».
L’ottavo giorno
Racconto di Indio
Cominciò tutto un banale martedì.
Quando si ammalò un bottone nel suo sangue.
Alois si infilò la camicia, allacciò il polsino e il bottone cadde, lasciando a perenne ricordo di sé un cippo di cotone bianco. Non sapendo cucire, cambiò camicia.
Mercoledì toccò alla giacca.
La indossò, la fece scivolare sulle spalle, scosse i polsi per sistemarla e un bottone dorato tintinnò sul pavimento. Era uno dei tre appesi alla manica destra, ora portatrice di una intollerabile asimmetria.
Giovedì piovve e toccò allora all’impermeabile.
Si ritrovò in mano il bottone più basso. La sequenza non si arrestò. Colpì i grossi bottoni del loden blu; quelli, a pressione e indistruttibili, dei jeans americani; gli automatici dei boxer, perfino.Il contagio si estese: saltarono i bottoni a clip delle federe, quelli del portachiavi di pelle, delle tende a strisce in cucina. I loro scatti risuonavano come scoppiettii di popcorn nella casa vuota.
“Mi si sta sbottonando la vita”, concluse prendendo atto con amarezza di una situazione che precipitava nel vuoto di un’asola.
“Occorre qualcosa che sia capace di ricucirmela”, decise.
Si rivolse alla scrittura e scoprì aveva mani affusolate e dita danzanti, circondate ognuna da un anello prezioso e l’anulare, magicamente, da un ditale d’oro.
Lei, la scrittura dolente e scintillante, infilò il filo di cotone nell’ago con la sicurezza di un arciere e conficcò, uno dopo l’altro, i bottoni al loro posto, rendendoli forti di una nuova sicurezza, che si propagava ad abiti, tendaggi, alla stessa persona di lui.
Si trovò ristabilizzato. L’unica cosa difficile da controllare era il suo cuore. Innamorato della vita, batteva scomposto, minacciando di sfilarsi dal suo alveo.
Le chiese di nuovo aiuto, dichiarandole il suo amore.
Lei, la scrittura compassionevole, risolse anche quel problema, infilando a tutti noi che l’abbiamo letto un ago nel petto.
Ci sono persone come noi che hanno notti senza sogni e ci sono persone come Alois che hanno sogni senza più notti. Non so dove vanno le persone che muoiono, so però cosa lasciano.
Un tempo lontano
Racconto di Colas
Un tempo lontano, ma neppure così lontano, un ragazzo dai fili d’oro tra i capelli -avrà superato da poco i vent’anni- raccolse lungo la strada, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, le lacrime e i sorrisi delle vite conosciute e sconosciute.
Li setacciò e ciò che rimase furono parole.
Cucì un sacchetto con alcuni di quei fili d’oro presi in prestito ai capelli, vi pose le parole e lo fermò all’interno dalla camicia vicino al cuore.
Quasi subito le poche parole rubate all’alfabeto della vita cominciarono a trasformarsi in una scrittura sottile e trasparente. Il ragazzo mostrò ben presto al mondo i suoi occhi d’acqua chiara e la voce profumata di libertà. Contemplò città, vide albe e tramonti, percorse la terra in tutte le sue longitudini, camminò attraverso grattacieli d’acciaio escese in metropolitane puzzolenti, valicò fiumi e torrenti, solcò mari profondi. Il suono delle parole custodite nel sacchetto vicino al cuore accompagnava sempre il suo andare. Le genti erano troppo impegnate però, e non si sono accorte di lui, del ragazzo dal viso affilato e dai fili d’oro tra i capelli che passava, non lo vedevano guardare nel cuore e dentro l’anima, e intorno a lui favevano infamia delle sue ferite aperte.
Finché un giorno, al crepuscolo, sotto un tenero cielo egli arrestò i suoi passi; le parole custodite amorevolmente dentro al sacchetto presero a parlare alla luna nascente con voce indebolita dal dolore e dalla sofferenza. Allora il ragazzo -sulla punta del mento e sulle mascelle, appena un accenno di barba- scavò con le bianche mani affusolate la dura terra in cinque punti diversi disposti a cerchio, li rese soffici, e urlò al vento il suo segreto. Poi si tolse dal cuore il sacchetto, ne cavò le parole, e una ad una le pose nelle cinque buche ancora tiepide e odorose di vita. Un fremito di passione percorse in lungo e in largo quel luogo e, come d’incanto, la luna dondolò.
Quindi il ragazzo dai fili d’oro tra i capelli rimase ignudo, incrociò gambe e braccia, chinò il capo e cominciò a rotolare in cerchi sempre più ampi accompagnato da parole arcane. Solo all’alba si fermò. All’improvviso come d’incanto dispiegò le membra, si allungò e allargò smisuratamente, poi divenne sottile, sempre più sottile, andando a ricoprire con un velo sublime di sudore e amore il luogo incantato della scrittura.
Laggiù… racconti vibranti e lucenti, come tenui fili d’oro intrecciati si alzarono al cielo dal luogo dove le parole erano state poste. Lì sarebbe nato il tempio. In esso sarebbe stato custodito per l’eternità il segreto sorretto dalla terra, carezzato dal vento, nutrito dall’acqua, scaldato dal sole, amato dalla luna.
Il ragazzo
Racconto di Guido Siragusa
Quel giorno per una forma di trasgressione inconsapevole, egli sceglie come luogo per una passeggiata quel posto lontano. Il cimitero. Lo sceglie come voluttuosa attrazione tra amore e morte. L’intima unione tra Eros e Thanatos si compie nella morte -egli ha scritto in uno dei suoi racconti- paradiso degli amori terreni impossibili, cui gli amanti confidano il loro destino.
Passeggia lentamente, trascinando il proprio corpo, come se indugiando in quel modo nel concedersi alla strada lo facesse stare meglio nei suoi pensieri. Passo dopo l’altro. In fondo, si dirà quel ragazzo poco più che ventenne, c’è nessuno che lo aspetta là dove sta andando, nessuno che possa offendersi del suo ritardo né se strada facendo cambiasse idea o destinazione e riprendesse la via del ritorno.
Egli a tratti si ferma, a volte sorride. Un intreccio di attimi e di pause interminabili, nei quali il mondo ruota intorno. Ed egli galleggia sospeso, dimenticando in quegli attimi rubati al tempo ciò che si nasconde nel suo animo di giovane solitario. In fondo, si dirà per la seconda volta in pochissimo tempo, c’è nessuno che lo aspetta, né là dove sta andando ma neppure a casa dove non vuole tornare.
Del resto egli sa che la cosa più importante per andare avanti è ritrovare fiducia nell’oblio, ritrovare quella sottile linea immaginaria che sembra proteggerlo da ogni possibile forma di male terreno.
Tutt’a un tratto, egli si rende conto come per incanto che è una fresca giornata primaverile; si rende conto alzando per un attimo la testa che tiene china sulla strada, camminando schivando i sassi del viottolo. Ci sono tante cose che si potrebbero raccontare su questo ragazzo poco più che ventenne, troppo bello per non insinuare un minimo senso di desiderio: invidia per il maschio, voglia di possederlo per la femmina. In questo strano pomeriggio ormai giunto alla fine, in questo cimitero in cui sta entrando ora, nella città che un tempo era anche sua.
Questo ragazzo così fragile, mezzo curvo per i suoi pensieri, che vagano raminghi nella sua mente com’egli adesso vaga ramingo per questi luoghi che si fanno man mano più estranei ai suoi occhi.
Il cimitero ha le sembianze di un cimitero di paese. I confini sono demarcati, alla destra per chi entra ma alla sinistra da dove lo sto osservando, dal filare di cipressi che si stagliano in fila indiana verso il cielo al crepuscolo. Lungo questa linea, orizzontalmente estesa dal cancello in ferro battuto dell’ingresso fino in fondo alla chiesetta in mattoni rossi, da dove mi metto a spiarlo, lungo questa linea egli procede lento e assorto tra l’ingarbugliamento dei suoi pensieri, densi di nebbia, di alcune birre e di molta solitudine.
Adesso allungo il collo per spiarlo meglio. Ed egli si accende una sigaretta. Istintivamente è attratto dalla mano, la sua. Poi sospira. Dopo si guarda attorno come se vedesse niente, nessuno.
Ci sono tante cose che si potrebbero dire su questo ragazzo, continuo a ripetermi mentalmente nella mia assoluta immobilità di osservatore distaccato. Tante cose. Però adesso preferisco spiarlo in silenzio, laggiù vicino alla tomba senza lapide, dove egli si è accovacciato a terra, mentre fuma. Fuma e si guarda attorno, facendo attenzione a non respirare troppo forte per non rompere il silenzio che lo avvolge. Un silenzio sufficiente e assoluto per risparmiare a chiunque ogni parola, ogni pensiero. Persino a lui. Bello e poco più che ventenne, avulso da confronti.
Esiste -questo ragazzo- o lo sto inventando? Conscio del presentimento che sono prigioniero della mia assurda invenzione, e stupidamente reale al tempo stesso, che ora sto vivendo sulla mia pelle mentre invento, non lasciando spazio alcuno per altre fughe; come andare incontro a questo ragazzo, sedermi di fronte a lui e parlargli guardandolo ben dentro agli occhi. O forse solo fissarlo senza pudori, oppure offrirgli un frenetico joint e fumarcelo insieme, laggiù nel fango del cimitero, seduti sulla lastra di quella tomba consunta dal tempo.
Amare il proprio io nell’altro a volte ci condanna, mi dico. Ma quando questo ragazzo arma parole che giungono fino a me in frammenti scagliati attraverso lo spazio che ci separa, in forma così luminosa che rischia di accecare anche me… Quando tutto questo avviene come sta avvenendo, a volte i corpi desiderano toccarsi perché le menti volino insieme al di là della linea dell’orizzonte, anche se non si percepisce, anche se non è chiaramente visibile. Guardarsi allora è come accettare di riconoscersi, o forse è riconoscersi.
È come farlo allo specchio – forse infranto, scomposto in tanti piccoli frammenti deformanti che possono ferire – e contemplarci disarmati, complici,abbandonati, pungenti, severi… come compagni. Forse per questo esito e indugio a lungo, per il timore compassionevole di essere in grado di comprendere il verbo di tali abissi colonizzati, la voce roca di questo ragazzo più grande contro il rumore assordante del mondo…
Ma adesso, mentre lo sto guardando così con insistenza, sento nella mia fragilità di sedicenne quello che lui stesso sente e nel medesimo istante, per un attimo, vedo ciò che a malapena sta per disegnarsi. E ho paura.
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